« L’orange est constituée par une série de containers modulés en forme de quartiers disposés circulairement autour d’un axe central sur lequel chaque quartier appuie par son arête rectiligne, tandis que toutes les arêtes courbes tournées vers l’extérieur proposent comme forme globale une sorte de sphère.
L’ensemble de ces quartiers est recueilli dans un emballage très caractérisé tant sur le plan de la matière que sur celui de la couleur : assez dur sur la surface extérieure et revêtu d’un rembourrage souple intérieurement qui sert de protection entre l’extérieur et l’ensemble des containers. Le matériau est partout de même nature mais se différencie opportunément au niveau de la fonction. Chaque container est à son tour constitué par une pellicule plastique nécessaire pour contenir le jus et facilement détachable de l’ensemble. Chaque quartier est maintenu par un très faible adhésif. L’emballage selon l’habitude actuelle n’est pas à rendre au fabricant et peut être jeté. Chaque quartier épouse exactement la forme de la denture humaine, ce qui fait qu’une fois sorti de l’emballage on peut l’appuyer entre les dents et en extraire le jus par une légère pression.
D’habitude les quartiers contiennent en plus du jus une petite graine de la plante qui a produit le fruit. Un petit cadeau que la production offre au consommateur pour le cas où celui-ci désirerait avoir une production personnelle de ces objets. Il faut remarquer le désintérêt économique d’une telle idée, et par contre le lien psychologique qui s’établit ainsi entre le consommateur et la production. Personne ou en tous cas très peu de gens commenceront alors à semer des orangers, mais l’offre de ce cadeau hautement altruiste, l’idée de pouvoir le faire, libère le consommateur du complexe de castration et établit un rapport de confiance autonome et réciproque.
L’orange est donc un objet presque parfait où l’on retrouve l’absolue cohérence entre la forme, la fonction et la consommation. Seule concession décorative si l ‘on peut dire : la recherche de la matière à la surface de l’emballage, traitée en « épluchure d’orange », peut-être pour rappeler la pulpe à l’intérieur des containers. De toute façon, c’est un minimum de décoration parfaitement justifié, il faut bien le reconnaître. »
Bruno Munari, Good design, Mantoue, Corraini, (1963) 2003
L’oggetto è costituito da una serie di contenitori modulati a forma di spicchio, disposti circolarmente attorno a un asse verticale, al quale ogni spicchio appoggia il suo lato rettilineo mentre tutti i lati curvi volti verso l’esterno, danno nell’assieme come forma globale, una specie di sfera.
L’insieme di questi spicchi è raccolto in un imballaggio ben caratterizzato sia come materia sia come colore: abbastanza duro alla superficie esterna e rivestito con un’imbottitura morbida interna di protezione tra l’esterno e l’assieme dei contenitori. Il materiale usato è tutto della stessa natura, in origine, ma si differenzia in modo appropriato secondo la funzione. L’apertura dell’imballaggio avviene in modo molto semplice e quindi non si rende necessario uno stampato allegato con le illustrazioni per l’uso. Lo strato d’imbottitura ha anche la funzione di creare una zona neutra tra la superficie esterna e i contenitori così che, rompendo la superficie, in qualunque punto, senza bisogno di calcolare lo spessore esatto di questa, è possibile aprire l’imballaggio e prendere i contenitori intatti. Ogni contenitore è a sua volta formato da una pellicola plastica, sufficiente per contenere il succo, ma naturalmente abbastanza manovrabile. Un debolissimo adesivo tiene uniti gli spicchi tra loro per cui è facile scomporre l’oggetto nelle sue varie parti tutte uguali. L’imballaggio, come si usa oggi, non è da ritornare al fabbricante ma si può gettare. Qualcosa va detto sulla forma degli spicchi: ogni spicchio ha esattamente la forma della disposizione dei denti nella bocca umana per cui, una volta estratto dall’imballaggio si può appoggiare tra i denti e con una leggera pressione, romperlo e mangiare il succo. Si potrebbe anche, a questo proposito considerare come i mandarini siano una specie di produzione minore, adatta specialmente ai bambini, avendo lo spicchio più piccolo. Oggi purtroppo con l’uso delle macchine spremitrici tutto viene confuso e gli adulti mangiano il cibo dei bambini e viceversa. Di solito, gli spicchi, contengono oltre al succo, un piccolo seme della stessa pianta: un piccolo omaggio che la produzione offre al consumatore nel caso che questi volesse avere una produzione personale di questi oggetti. Notare il disinteresse economico di una simile idea e per contro il legame psicologico che ne nasce tra consumatore e produzione: nessuno, o ben pochi, si mettono a seminare aranci, però l’offerta di questa concessione altamente altruista, l’idea di poterlo fare, libera il consumatore dal complesso di castrazione e stabilisce un rapporto di fiducia autonoma reciproca. Gesto cordiale e signorile, non come certi produttori contemporanei che offrono una mucca a chi compra venticinque grammi di formaggio.
L’arancia quindi è un oggetto quasi perfetto dove si riscontra l’assoluta coerenza tra forma, funzione, consumo.
Persino il colore è esatto, in blu sarebbe sbagliato. Tipico oggetto di una produzione veramente di grande serie e a livello internazionale dove l’assenza di qualunque elemento simbolico espressivo legato alla moda dello styling o dell’estètique industrielle, di qualunque riferimento a figuratività sofisticate, dimostrano una conoscenza di progettazione difficile da riscontrare nel livello medio dei designer. Unica concessione decorativa, se così possiamo dire, si può considerare la ricerca “materica” della superficie dell’imballaggio trattata a “buccia d’arancia”. Forse per ricordare la polpa interna dei contenitori a spicchio, comunque un minimo di decorazione, tanto più giustificata come in questo caso, dobbiamo ammetterla.